Un aldilà digitale dopo la morte?
Lo scorso settembre in occasione di Torino Spiritualità, presso il Circolo dei Lettori, si è tenuto il simposio “L’incontro del digitale con la cultura del Thanatos”, patrocinato da AFC Torino ed organizzato da Euridice Digitale. All’incontro, moderato da Diego Castagno, hanno partecipato Sergio Bellucci, Andrea Ciucci e Maria Giovanna Musso. Di seguito riportiamo la parte iniziale di questo dialogo sulla connessione sempre più stretta tra il mondo della morte e quello del digitale.
I PROTAGONISTI
Sergio Bellucci: è un fisico, scrittore e giornalista italiano. Nella sua carriera ha collaborato con numerose testate ed è esperto di innovazione tecnologica, digitale e comunicazione. Di recente ha pubblicato il libro “AI Work: la digitalizzazione” del lavoro per Jaca Book.
Andrea Ciucci: è coordinatore della sede centrale della Pontificia accademia per la vita (Santa Sede) e segretario generale della Fondazione vaticana RenAIssance per l’etica dell’intelligenza artificiale. Lavora in particolare sui nessi tra antropologia, etica ed esperienza religiosa, con particolare riferimento alle nuove tecnologie.
Maria Giovanna Musso: è professore associato presso Sapienza, Università di Roma, dove insegna Sociologia del Mutamento, della Creatività e dell’Arte. Si occupa di: sistemi complessi e immaginario sociale, anche nell’ottica dei mutamenti alle nostre strutture derivate dalle nuove tecnologie.
Diego Castagno: Negli ultimi anni, ricchi di novità e sperimentazioni nel campo del digitale, sono tre in particolare le vicende che più ci hanno ispirato nell’organizzazione di questo evento. Una è la chat di Padre Pio che permette di entrare in contatto con il pensiero del Santo attraverso un chatbot. In secondo luogo devo citare il libro “Porcospini digitali” di Davide Sisto, molto interessante per la sua analisi antropologica tra morte e digitale. L’ultima è WeCroak, un memento mori formato app che manda cinque messaggi al giorno all’utente per ricordargli che il suo destino è segnato: dovrà necessariamente morire. Quello che è in un certo modo paradossale è che questo memento mori 2.0 finisce con l’alleggerirci, reinserendoci nel naturale ciclo di vita e morte. Il contrario del carpe diem che invece ci appesantisce della responsabilità di dover vivere al massimo ogni nostro attimo. Il titolo dell’evento è invece stato ispirato da Thanatos, il dio greco della morte, per due motivi. Thanatos è infatti il fratello di Ipnos, ovvero il Sonno, secondo Omero, ma anche è il figlio di Nyx, la Notte, secondo Esiodo. Thanatos dunque contiene al suo interno i due ambiti della notte del sonno e giunge sulla terra per portare le persone, i comuni mortali, nell’aldilà. E arriva all’improvviso; Elpis, la dea Speranza, che è l’ultima a morire, è l’unica consolazione che gli dèi hanno lasciato ai loro figli. Noi però non abbiamo più familiarità con il concetto di morte improvvisa, che quando arriva ci sciocca e ci terrorizza. In compenso è nato il un nuovo concetto della “buona morte”, che buona in realtà non è per niente. Un tempo quando ci si ammalava o si guariva o si moriva, oggi no. Oggi si guarisce a determinate condizioni, ci si cronicizza, si diventa ultra-ottuagenari, ebbene cambia proprio il mondo nella sua complessità materiale, non per solo nell’immaginario. Tutto ciò si incrocia con l’altra grande transizione di cui si parlava in principio, ovvero quella verso il digitale. Passo dunque il testimone a Sergio Bellucci, fisico e scrittore, che si occuperà dell’aspetto materiale di queste transizioni e di come ci cambino e chi abbiano già cambiato. Seguirà poi l’intervento di Don Andrea Ciucci, coordinatore di segreteria per la Pontificia Accademia per la Vita, per discutere dello spirituale ed infine tenteremo di raggiungere una sintesi attraverso le parole di Maria Giovanna Musso, professoressa associata dell’Università della Sapienza di Roma dove insegna sociologia del cambiamento.
Sergio Bellucci: Per trattare l’argomento in modo comprensibile occorre esplicitare due premesse. Innanzitutto è necessario definire la categoria della transizione, che io considero come una cosa diversa dalla crisi con cui pure oggi spesso viene scambiata. La crisi infatti è un momento della società umana in cui l’equilibrio di gestione dei rapporti sociali ed economici, va in disequilibrio. Questo disequilibrio produce una serie di effetti, anche molto duri, ma al termine di questa fase la società ritrova un punto di equilibrio che è all’interno delle categorie, delle forme precedenti. Si ristabilisce un ordine.
La transizione è un’altra cosa. Si tratta del passaggio da un modello economico-sociale, da una cultura, da una società, ad un’altra società che ha altre regole, forme e logiche. Le transizioni tuttavia non avvengono spesso nella storia umana. Quando avvengono la discontinuità è talmente profonda che i soggetti sociali investiti da questo cambiamento difficilmente potranno rendersene conto durante la loro vita. Si dice che oggi ci troviamo all’interno della transizione digitale, ma in che modo questa transizione ci cambia? Per farla breve il punto più rivoluzionario di questa transizione è che se prima per elaborare modelli economici ci si basava su dati statistici generici oggi grazie all’immensa mole di dati a nostra disposizione possiamo arrivare a misurare addirittura il comportamento dei singoli e vendere questi dati a coloro che sono in grado di trarne profitto. Noi tutti in questo momento stiamo producendo dati, anche se non ci troviamo davanti a un PC i nostri smartphone ci ascoltano costantemente ed acquisiscono preziose informazioni e dati sulla nostra vita. Quella dei dati è un’industria che non si ferma mai. Una sorta di lavoro implicito che produce una quantità di risorse gigantesche e che non può che portare anche a un cambiamento tra di noi, sia nella relazione che noi abbiamo con la vita, ma anche rispetto alla percezione stessa della vita, fino a cambiare la nostra percezione della realtà. Ultimamente si sta discutendo tantissimo di intelligenza artificiale e gli investimenti per produrre metaversi sono sempre più consistenti. Al loro interno è infatti possibile consumare ulteriormente cose immateriali, modificando la relazione che abbiamo con la vita e la morte. È recente la notizia che riporta come ad un convegno di Forza Italia sia stato proiettato un avatar in ologramma di Berlusconi per renderlo presente fisicamente all’assemblea. Non è la prima volta in politica che viene utilizzato questo espediente, ma questo dà la misura di come il rapporto tra gli esseri umani si estenda ampiamente al di là del confine della morte anche nei rapporti sociali diretti; la sua presenza non era meramente accessoria, era effettivamente significativa per coloro che si trovavano là. E così questioni che fino a ieri davamo per scontate, non lo sono più perché il digitale produce delle rotture verticali nel rapporto che l’individuo ha con la vita, ad esempio la rottura della sequenzialità.
Noi tutti utilizziamo delle chat per dialogare con il mondo, whatsapp o qualunque altra sia, e costruiamo relazioni che hanno una sequenzialità che non è la sequenzialità umana fisica, ovvero io dico una cosa tu mi rispondi e dialoghiamo. Quella sequenza può ora essere interrotta e alterata dall’arrivo di altri messaggi che si prendono la scena prima che quella risposta che noi abbiamo richiesto arrivi. Ma modifica anche le forme del nostro rapporto con il mondo rompendo la spazialità, infatti io non so dove sia collocata la persona con la quale sto dialogando, potrebbe essere in Australia o nella città dove vivo quanto al piano di sotto, oppure essere morta… ed in effetti il limite si è spostato tanto in là che io posso avere una risposta da una persona che è già deceduta. Infine è venuta meno anche la materialità della relazione, quindi le tre fondamentali strutture della relazione umana sono state cancellate dall’avvento di questa tecnologia; una tecnologia che estende la capacità del marketing di capire che cosa sta accadendo nella società per venderlo al mercato delle informazioni che serve a sua volta a vendere i prodotti che voi poi acquisterete. E questo è il punto: tutto poggia su una rottura della struttura della conoscenza di come è fatto il mondo che è stata introdotta dalla meccanica quantistica. Oggi i fisici dicono che non esiste più il principio di realtà perché le particelle si definiscono in funzione della relazione che noi costruiamo con la particella che andiamo ad osservare e quindi quella particella esiste solo se e nella forma in cui noi interveniamo sulla sua condizione. Quindi la realtà non è più definita così come noi abbiamo pensato per millenni e non esiste la località. I due principi fondamentali su cui pensiamo che il mondo esista sono in realtà falsi, o per meglio dire sono delle illusioni che i nostri sensi producono nel rapportarci con il mondo, una sorta di velo di Maia che ci permette di inquadrare la realtà in un certo modo anche se così non è. È dunque evidente che ci troviamo all’inizio di una nuova fase della storia umana di cui dobbiamo prendere atto ed è necessario chiedere ai decisori politici, imprenditoriali e sociali, di prendere atto di questo nuovo inizio, di questo nuovo cammino di cui abbiamo bisogno e di cominciare a produrre i modelli sociali e l’idea di uomo a cui possiamo dare vita con queste nuove conoscenze con le quali siamo entrati in contatto.
Diego Castagno: Ringrazio Sergio dell’intervento, interessate come sempre, e passo la parola ad Andrea Ciucci. Lui si occupa di algoretica, materia senza dubbio densa e complessa, ed andrà ad affrontare il rapporto tra morte e digitale dal punto di vista spirituale.
Andrea Ciucci: Per semplificare i concetti che voglio esprimere inizierò con un’immagine tratta da Black Mirror, la celebre serie Netflix, ovvero la schermata finale dell’episodio San Junipero. L’immagine finale di San Junipero è una lucina accesa, è la storia di una persona che muore, ma tutti i suoi dati, tutta la sua storia, vengono raccolti e digitalizzati e a lei è promessa un’eternità nella forma della codificazione digitale della sua storia. A ben pensarci, per noi non conta affatto che tutto quello che può essere registrato sia in un chip e ci sia una lucina accesa. La questione diventa subito interessante se c’è invece qualcuno che quella lucina accesa la vede, si accorge cioè che in qualche modo può ancora attingere alla mia storia, ai miei dati, alle cose che ho detto, che ho fatto e a tutto il resto. La questione si fa quindi interessante, la digitalizzazione e la registrazione della totalità dei nostri dati diventa un argomento fondamentale se c’è qualcuno che anche dopo la mia morte può usarli, accedervi, conoscerli, registrarsi, interfacciarsi, anzi con le nuove moderne tecnologie addirittura può arrivare costruire una relazione nuova. L’immortalità è in effetti comprensibile solo e soltanto se inserita nel contesto di una relazione, perché che senso potrebbe mai avere essere immortali ma completamente soli? Al di là del problema di come passare il tempo per l’eternità se non si ha nessuno con cui chiacchierare, una noia mortale senza dubbio, la faccenda in realtà pone una questione più seria perché è una potente critica al pensiero essenzialista, tutto preoccupato dal sostenere che la mia anima è mortale. Non è importante. Il problema non è ovviamente che la mia anima è importante, il problema è se c’è qualcuno che parla con me, si accorge di me ed è interessato a me, anche quando io sono morto; la questione della relazione entro cui va ascritto anche il tema dell’immortalità è una questione che non nega la domanda essenzialista, cioè chi sono io e quali sono le mie doti, ma attenzione dice non è sufficiente, non basta definire chi sono io. Tutto ciò è interessante e si intreccia col fatto che abbiamo un nuovo grande strumento che sta cambiando il nostro mondo: il digitale. In senso ampio ecco che abbiamo applicato il tema della morte, che è quella cosa che ci angoscia, ma nemmeno con questo sistema riusciamo del tutto a relazionarci, a stare con le persone che ci vogliono bene. A ben pensarci lo facevamo anche prima, pensate alla funzione sia nella costituzione dell’individuo che nella socialità dell’album delle fotografie di famiglia, dove tu vedevi i volti degli avi e raccontavi di loro alle nuove generazioni. Ora continuiamo a fare lo stesso in maniera più raffinata, l’ologramma in qualche modo sembra dischiuderci un’autonomia di chi non c’è più, maggiore quantomeno rispetto alla fotografia. Non riusciamo proprio a superare il nostro desiderio di essere ricordati.
L’altro episodio di Black Mirror di cui vorrei parlare è Be Right Back, la storia di una giovane coppia divisa da una tragedia, il marito muore di colpo per un incidente d’auto. Qui ci troviamo in un futuro leggermente avanti, e a questa donna arriva a un certo punto un consiglio di un’amica: esiste questo servizio per cui se tu lo autorizzi, verrà raccolto tutto il materiale digitale che c’è su tuo marito e sostanzialmente verrà costruito un avatar con cui tu potrai parlare, non semplicemente ripetendo le cose, ma interagendo realisticamente secondo la sua visione del mondo. La vedova accetta e quando questa donna scopre di essere incinta del marito defunto e glielo dice questo risponde “Oh che bello diventerò papà!”. Arriva poi a un certo punto l’upgrade di questo servizio, ovvero non soltanto c’è la parte online, ma anche un robot che ha le stesse fattezze del defunto e parla allo stesso modo. Si tratta naturalmente di un robot con una fisicità molto vicina all’umano. Il punto più interessante però è il finale: dopo un po’ lei spegne il robot e lo mette in soffitta. La cosa ci sorprende in effetti e ci lascia perplessi. È tanto bello pensare di poter dialogare nuovamente con la nonna, ma non è lei, come non ero io la fotografia che si vedeva nel passato, o la statua che ho dipinto, ma non sarò io neanche se faranno un mio clone. Ci troviamo sempre all’interno di un dinamismo di mimesis, di un passaggio intermedio: non sono io perché io sono più della mia immagine e non sono riducibile alla mia immagine, io sono più delle mie idee e non sono riducibile alle mie idee, io sono più dei miei dati.
Noi siamo dunque più dei nostri dati e se mi riducete i miei dati fate una riduzione; io sono anche più del mio corpo. Questo tema della morte e dell’immortalità al tempo del digitale ci riporta tra le altre cose alla questione del chi siamo, non del chi sono attenzione, ma del chi siamo, ricordandoci l’importanza della relazione. In questo senso io rivendico il materiale, o meglio il reale, cioè un’articolata complessità difficilissima da districare; rivendico il reale e proprio per questo mi dispiace perché devo morire. Sono triste: non è una buona notizia e al contempo riconosco che il carpe diem non è qualcosa da cui fuggire, ma piuttosto uno strumento per riportarmi alla responsabilità dell’esistenza, del qui e dell’ora.
Diego Castagno: Grazie Andrea. La questione è stata citata anche da te in calce, ma in generale ultimamente si è molto, forse fin troppo, sentito parlare di complessità, anche al di là della confusione complicato-complesso. Ora a partire dall’ultimo intervento, che si è imperniato anche sul rapporto tra realtà e verosimiglianza, affido a Maria Giovanna Musso la questione dell’immaginario in particolare rapportato ad una realtà complessa che ne costituisce una rappresentazione…
Maria Giovanna Musso: Chiaramente per parlare concretamente di immaginario, di complessità, di morte, di immortalità, di tecnologia, di materiale occorrerebbe una lunga trattazione, ma cercherò di esprimere i concetti chiave con una panoramica sulla questione. Partiamo da una domanda: perché è così importante riflettere sul tema dell’immaginario? Perché contrariamente a quanto abbiamo sempre pensato, la realtà materiale, quella che noi costruiamo nelle più diverse maniere, anche tecnologicamente, quella che noi percepiamo, quella che noi interpretiamo è già preformata da un sostrato, o meglio una matrice immaginaria che ne definisce i caratteri. Per intendersi, Schopenhauer diceva che la storia dell’umanità è l’equivalente di un grande sogno, o, per essere ancora più chiari, quello che si sviluppa nel corso della nostra storia non è altro che la realizzazione di un sogno. Non spetta a me stabilire se questo fosse un bel sogno o un incubo, probabilmente gli aspetti positivi e negativi convivono in questo sogno che abbiamo in qualche modo sviluppato nel corso della nostra civiltà, ma sicuramente quando parliamo delle tecnologie attuali possiamo osservare che il nostro sogno si sta pian piano svelando. Heidegger diceva che la tecnologia ha tra le altre cose la capacità di disvelare, ed in particolare svela qualcosa che nell’umano era già contenuto e che fino a un certo momento non si era riuscito a realizzare. Alla luce di ciò occorre ribilanciare la concezione che abbiamo della tecnica, della nostra storia, della nostra civiltà e dell’immaginario per poter comprendere appieno quello che abbiamo sotto gli occhi: la possibilità di realizzare cose che prima erano soltanto nei nostri sogni. L’idea di parlare con i nostri morti, l’idea di relazionarci alle persone che ci hanno amato e che noi continuiamo ad amare anche dopo che sono andate via, l’abbiamo sempre sognata e attraverso varie tecniche abbiamo provato ad applicarla, mantenendo però sempre una distanza tra realtà ed immaginario. La tecnologia comincia però a dare a questa capacità di immaginare una potenza ulteriore che fa transitare dalla sfera del sogno alla sfera del reale e del materiale delle cose che fino ad ora non erano possibile spostare.
L’arte contemporanea io credo che sia il contenitore più significativo delle questioni del nostro tempo, quella che ci mette di fronte alle cose in maniera più complessa. Ed è a partire dall’arte contemporanea di Iginio De Luca, un grande artista secondo me, che proverò ad esemplificare questo concetto. De Luca ha chiesto all’intelligenza artificiale di rispondere con una lettera della madre alle sue lettere e ha costruito un’intelligenza artificiale in grado di fornire delle risposte che fossero assolutamente congruenti con quella che era la persona che lui ha conosciuto. Dopo aver fatto ciò, ha riportato in una grande lettera sistemata su un furgoncino il risultato, ed è andato in giro per Roma a ripercorrere le tracce della vita di sua madre. Un atto questo decisamente commovente e poetico. Qual è il problema? Adesso è veramente molto difficile tracciare sistematicamente le tappe che portano a questo problema, ma per dirla in maniera molto sintetica noi siamo di fronte, ad una transizione lunga e sicuramente estremamente complessa, da uno stadio dell’umano a un altro e stiamo iniziando a vedere le prime caratteristiche di questo passaggio e cambiamento.
Una delle caratteristiche, a mio parere, più significative di questa transizione è quella che il linguaggio è oggi molto più sprovvisto di significato di quanto non fosse precedentemente, che quindi c’è un’industria del senso, o dell’immaginario, che si rivolge all’animo umano e non tanto rispetto ai beni fisici quanto alla nostra concezione stessa del mondo, alle nostre percezioni, al modo di rappresentare la vita e la morte. Tutto ciò ha modificato strutturalmente la nostra condizione esistenziale e, mettendo in fila tutti questi passaggi e le varie innovazioni tecnologiche che ci hanno condotti fin qui, ci sono due aspetti che è necessario sottolineare. Da un lato il fatto che nel corso della modernità si è tentato di rimuovere il concetto di morte, un allontanamento questo forzato dalla vita degli individui, perché è divenuta sempre più insostenibile l’idea del morire in un contesto in cui le possibilità di vita si amplificano e si differenziano assieme alle responsabilità di ciascuno; un abitante delle società pre-moderne, come sostiene Max Weber, poteva morire in qualche modo soddisfatto della vita perché il percorso della sua esistenza era già stato tracciato secondo certe regole, secondo certe condizioni e certi vincoli, mentre al contrario l’uomo moderno è un uomo esposto all’immensità, alla non definizione preventiva del suo destino. Noi abbiamo costruito una società che ci permette anche solo dal punto di vista culturale, dal punto di vista artistico, dal punto di vista simbolico di accedere a mondi prima impossibili anche solo da immaginare; questo comporta che nessuno nella post-modernità possa morire soddisfatto della propria vita perché ci sono tante altre vite possibili che avrebbe voluto e potuto vivere e questo è correlato a quella tensione verso l’immortalità che ha delle radici profondissime e che sicuramente è legata all’importanza della relazione, ma è ancora più profondamente legata alla costituzione dell’individuo in sé e della sua coscienza. Infatti una persona nel momento in cui prende coscienza di sé come un individuo e sa di essere esposta alla morte – ci troviamo di fronte ad una sorta di trauma – ed immediatamente reagisce con l’idea che una forma di immortalità debba essere possibile. Questa immortalità noi l’abbiamo perseguita in tanti modi: culturalmente, geneticamente, attraverso le relazioni, ma anche e soprattutto attraverso un rafforzamento della potenza tecnica che ci ha permesso di realizzare quello che prima era solo un sogno o quello che prima era solo un’aspirazione religiosa al divino, con tutte le implicazioni che comportava. La tecnologia oggi è una nuova forma di religione e questo penso che sia abbastanza facile da ammettere. Noi tutti siamo ormai convinti che con un’app ormai possiamo risolvere praticamente tutto, qualunque sia il problema ci sarà un’app che ti verrà in aiuto. Nella tecnologia è implicito sia l’elemento religioso che l’elemento magico e in più è insita in essa la tecnica che permette di realizzare quello che altrimenti non sarebbe possibile. Questo a poco a poco ha comportato, soprattutto con l’arrivo del digitale, una sorta di desertificazione del vecchio reale (costituito di rapporti psicofisici), uno spostamento di energie, di risorse, di investimenti, di aspettative verso il nuovo reale, che è una combinazione di online e offline, è quello che studiosi come Lion e Floridi chiamano “Onlife”. Quindi questo spostamento di attenzione verso la sfera dell’immateriale, che avviene abbiamo detto per mezzo del digitale, toglie risorse dall’altra sfera che è quella fisica. Un esempio è dato dal fatto che il corpo fisico, che è quello che muore, oggi abbia sempre meno importanza e la sua presenza nel mondo è diventata in qualche modo insignificante perché ciò che conta è la possibilità che quella presenza rimanga sotto altra forma. Quindi abbiamo una crisi profondissima della presenza, un ampliamento del regno dell’assenza nella sua complessità e una sorta di ibridazione costante tra i vari livelli e le varie dimensioni della vita a cui abbiamo sempre dato importanza, come ad esempio il rapporto tra materiale e immateriale, tra reale e immaginario. Io credo che ciò si stia producendo a causa dell’alimentazione dei simulacri e della riduzione dell’importanza della sfera fisica e biologica e naturale a cui siamo comunque collegati, si sta insomma producendo anche una sorta di inversione del rapporto. Insieme a Derrick de Kerckhove, che mi ha suggerito questa definizione, parlo di inversione del complesso di Don Quixote. Questo cavaliere senza macchia infatti scambiava la fantasia per realtà, noi invece stiamo cominciando a scambiare la realtà per fantasia o comunque le due cose sono ormai talmente mescolate, talmente intrise l’una dell’altra, che la capacità di operare separazioni, anche nel nostro caso tra il regno dei vivi e quello dei morti, sta venendo meno. Il cimitero è una forma di separazione e la relazione è possibile quando c’è la separazione, se non c’è la separazione c’è una sorta di incestuoso e fagocitante magma che implica la confusione tra questo universo e quell’altro.
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