Quell’indice che impazza sul cellulare
Tratto da il Sole 24 ore 15 maggio 2022
Oggi rincorriamo le informazioni senza approdare ad un sapere. Prendiamo nota di tutto senza fare esperienza. Salviamo quantità immani di dati senza far risuonare ricordi. Accumuliamo amici senza mai incontrare l’Altro. È a partire da queste considerazioni che si sviluppa l’ultima fatica di uno dei più originali e acuti filosofi viventi, Byung-Chul Han.
L’Autore sottopone a severa critica un reale in cui l’ordine terreno è stato superato da quello digitale. L’informatizzazione del mondo trasforma le cose in infomi: ovvero in agenti che elaborano informazioni. Il telos dell’ordine digitale è il superamento del «cruccio» che, secondo Heidegger, è il tratto fondamentale dell’esperienza umana. L’essere-nel-mondo non si compie più nella forma di un «commercio manipolante» dove le cose hanno il loro in-vista-di-cui finale nell’esserci. La nuova massima è: «L’essere è informazione». Viviamo in un’era defatticizzata e postfattuale ove gli infomi ci assediano. Fintamente ci assecondano e coltivando il nostro desiderio ci tendono la trappola illudendoci di soddisfare i nostri bisogni.
Se in passato valeva la massima di Anassagora secondo la quale: «l’uomo è intelligente perché ha le mani», oggi vale la regola del phono sapiens dove il touchscreen elimina la negatività dell’indisponibile, generalizza l’impulso aptico riducendolo all’indice che impazza sul cellulare. Rendendo consumabile ogni cosa. Trasformando tutto ciò che tocca in merce. Degradando della propria alteritàpersintil’Altro. Questi scompare in forma di voce si preferisce scrivergli un messaggio per sentirsi meno esposti così come ci si sente più protetti comunicando attraverso uno schermo che ne annulla lo sguardo.
Ormai, sostiene l’Autore, ci spiazza l’affermazione di Derrida secondo la quale la cosa è «il completamente Altro» se è vero, come è vero che, gli oggetti, dal verbo latino obicere: contrapporre, non oppongono più resistenza a chi sta loro di fronte. Lo smartphone è linfoma per eccellenza. Non è solo il telefono che squilla, ma un medium iconico e informativo. Assurto a una sorta di «devozionaie», è un dispositivo di sottomissione. Di più, è una non-cosa narcisistica e autistica che vieta l’empatia rendendo invisibile il proprio dominio e illudendo subdolamente il Phono Sapiens di essere libero e investito di un potere che non ha. La comunità diventa community, l’iperconnessione logora e impedisce la relazione. La stessa novità del selfie riguarda il suo statuto ontologico. Il selfie a differenza della fotografia analogica che, dice Barthes, «è un certificato di presenza», «attesta il noema: “È stato”» è iperreale, è un’istantanea da pubblicare subito sulla piattaforma. Di contro ai ritratti analogici carichi di mistero, i selfie sono votati all’esibizione e alla riproduzione di espressioni standard come la duckface. Di qui l’annuncio della scomparsa dell’essere umano munito di un destino e di una storia, il culto di un fast-food sincronico ove un’informazione scaccia l’altra e non c’è più tempo per la verità. L’indugiare contemplativo presso le cose, che potrebbe essere una ricetta della felicità, cede il passo all’infosfera abitata dall’intelligenza artificiale che sa far di conto, ma non può pensare.
Ora, che cosa resta, oggi, delle cose se solo si pensa all’insidia degli oggetti che potevano trasformarsi in pericolose trappole per Topolino, alla cui mercé non si sottraeva neppure Charlie Chaplin, e che riuscivano, addirittura, a commuovere il protagonista de La nausea di Sartre «proprio come se fossero bestie vive»? Un mondo completamente derealizzato, privo di «vincolatezza» e disincarnato. Heidegger, ricorda Han, si riconosce enfaticamente nel lavoro e nella mano, come se avesse presagito che l’uomo del futuro sarebbe stato senza mani. «Forse scrive il grande filosofo di. Friburgo pensare è semplicemente la stessa cosa che costruire un armadio. È comunque un mestiere (Hand-Werk)». Heidegger difende l’ordine terreno da quello digitale: da digitus, dito in latino. Noi contiamo con le dita, che sono numeriche, cioè digitali. Heidegger distingue la mano dalle dita, mostrando come la macchina da scrivere «sottrae all’uomo la dignità essenziale della mano». Distrugge la «parola» degradandola a «veicolo di trasporto», a «informazione». Come dire: la mano che afferra esperisce la cosa in maniera più originaria rispetto all’osservazione. La «servibilità» dello strumento indagata in Essere e tempo viene fatta precedere, Nell’origine dell’opera d’arte, dalla sua «affidabilità». Come il martello mi appare per quello che è, un arnese, nel momento in cui, invece di fissarlo, lo prendo in mano e martello, così le scarpe di cuoio, raffigurate nel dipinto di Van Gogh, funzionano sul serio «solo quando la contadina le infila e va». Ma l’essenza della cosascarpa non sta nella sua mera utilità, bensì rimanda ad un livello esperienziale precedente: «nello strumento-scarpa vibra il tacito e segreto appello della terra (..) la muta gioia del sopravvivere al bisogno»: «L’affidabilità della cosa spiega Han consiste nel fatto che essa immerge la persona in quelle relazioni col mondo capaci di offrire un appiglio: (…) mediante la propria affidabilità, la cosa consente all’essere umano di mettere piede sulla terra».
Da tempo, ormai, l’uomo non abita la terra: «la digitalizzazione è un passaggio coerente verso l’abolizione dell‘humanum», avverte Han. Eppure basterebbe una «rianimazione dell’Altro per liberarsi da questa povertà di mondo». Basterebbe ricordare il segreto che la volpe svela al Piccolo Principe. Capire «cos’è una cosa che sta a cuore». Sono i legami. Ma, per crearli, sono necessari il Tempo e l’Altro.
Francesca Nodari